Alcuni quotidiani e riviste specializzate, riportando interventi di Beppe Sangiorgi,  hanno dato la notizia che Casola è interessata da un’importante scoperta nel campo della viticoltura. Abbiamo intervistato lo Storico Casolano per un approfondimento.

«Lo studioso Lucio Donati di Solarolo – spiega Beppe Sangiorgi - facendo ricerche sulla famiglia Santandrea del Casone ha portato alla luce un atto notarile del 1672 conservato all’Archivio di Stato di Faenza che cita “tre filari di Sangiovese” nel podere Fontanella di Pagnano; un podere oggi in comune di  Casola Valsenio, ma allora in comune di Brisighella. Normalmente in tale periodo nei documenti si citavano vigne e terre vitate, mai il nome del vitigno, ma in questo caso la proprietaria, Maria Alpi, vedova di Francesco Santandrea, concedendo in affitto la vigna al parroco di Pagnano si riservava “tre filari di Sangiovese” posti verso la casa e pertanto li doveva specificare indicando il vitigno. Donati, conoscendo il mio interesse per la storia locale, mi ha fatto avere una copia di tale atto perchè riferito a Casola, ma mi è bastato poco tempo per accorgermi che si trattava di una scoperta di notevole importanza per la storia della viticoltura romagnola, nazionale e mondiale, essendo il sangiovese il vitigno più diffuso in Italia e uno dei più diffusi nel mondo, ma le cui origini sono ancora misteriose».

 

In che cosa consiste  l’importanza che fa entrare Casola nella storia del Sangiovese?

«Si tratta  del primo documento fino ad ora  conosciuto che riporta il termine “Sangiovese” che oggi identifica il vino rappresentativo della produzione enologica romagnola e nazionale. In precedenza si trova solo una citazione attorno al 1600 in Toscana ma come Sangiogheto. La citazione nell’atto notarile è importante anche perchè viene riportato il nome del vitigno e non del vino, per cui si può desumere con certezza il luogo della coltivazione ed ipotizzare con fondamento una sua presenza antecedente, almeno nella zona, in quanto non impiantato da uno sperimentatore ma da un semplice proprietario agricolo a conferma che nella collina faentina il Sangiovese era coltivato per lo meno già attorno alla metà del XVII secolo mentre fino ad ora si pensava che il Sangiovese fosse arrivato in Romagna  nel ’700. Questo apre nuovi scenari sulla storia della viticoltura in Romagna come ho potuto accertare nel corso di una ricerca partita proprio da tale documento, ricerca che sarà pubblicata dal Consorzio Vini di Romagna e che ho già presentato al Vinitaly e alla tornata di Cesenatico del Tribunato di Romagna e della quale si è interessato anche Giammario Villa che tiene un corso sul Sangiovese all’Università della California».

Quali sono i punti salienti di tale ricerca?

 «Partendo dal documento in oggetto è stato possibile accertare come le prime e più diffuse citazioni del Sangiovese in Romagna riguardino l’area faentina-imolese. Nel 1680 Modigliana e poi Imola (1701 e 1716), Solarolo (1744) e poi via via, per tutto il ‘700 e oltre, Faenza, Tossignano, Riolo e Casola Valsenio, “il cui parroco – si legge in una pubblicazione del 1825 – insieme con una cantina di sangiovese eccellente ha una libreria copiosissima di predicatori e poeti del Seicento”. Invece nell’area forlivese-cesenate-riminese le citazioni relative al Sangiovese iniziano  più tardi, verso la metà del ‘700 e un secolo dopo  tale area registrerà una straordinario sviluppo della coltivazione di tale vitigno e un grande miglioramento qualitativo nella vinificazione».

Tutto questo cosa significa?

«Molti autorevoli studiosi ritengono genericamente l’Appennino tosco-romagnolo la culla del Sangiovese, figlio di due vitigni toscani, di cui uno “immigrato” dalla Calabria”. Combinando tale presupposto con una originaria e larga diffusione del Sangiovese nel Faentino e nell’Imolese, ho ipotizzato che la culla, nella quale il vitigno è cresciuto robusto e generoso, sia stata tra il XII e il XV secolo, il cosiddetto “periodo caldo medievale”, nel versante romagnolo di quella parte della Romagna Toscana dalla quale originano le vallate del Lamone, Senio e Santerno.  E precisamente nelle vigne dei monasteri vallobrosani di S. Reparata e Crespino nei pressi di Marradi, Susinana, tra Casola e Palazzuolo e Moscheta, vicino a  Firenzuola. I monaci vallombrosani  erano abili viticoltori e dovevano disporre di vino rosso per le celebrazioni religiose in quanto è stato solo il Sinodo di Milano del 1565 che ha permesso l’uso del vino bianco ed inoltre la Regola di San Benedetto disponeva che in caso di malattia i monaci potevano bere un’emina (tre coppe) di vino al giorno».

Poi cosa è successo?

«Secondo alcuni linguisti il Sangiovese ha assunto nell’Appennino tosco-romagnolo il nome di “Sangue dei gioghi” cioè dei monti per poi scendere in Romagna e in Toscana diversificandosi nel nome e nelle caratteristiche in quanto è un vitigno molto sensibile al terroir.  Nel dialetto romagnolo la definizione originale è stata tradotta in sangve di zov e quindi sangve zoves che attraverso una contrazione e unificazione è diventato sanzves, poi italianizzato in Sangiovese e così si è sempre e solo chiamato in Romagna sia il vitigno che il vino. In Toscana invece è stato chiamato prima Sangiogheto poi Sangioeto, San Zoveto, e soprattutto Sangioveto fino a cavallo del 1900 quando, anche in tale regione, si è affermato il termine Sangiovese».

Come mai si è affermato il termine romagnolo Sangiovese a scapito del toscano Sangioveto?

«La preminenza del Sangiovese si è verificata in corrispondenza della diffusione in altre regioni dei due vitigni – sangiovese e sangioveto – nella seconda metà dell’800 per il reimpianto di vigneti distrutti dalla fillossera. Il nome Sangiovese era “nell’orecchio” in quanto le sue uve erano vinificate in purezza e quindi il vino con tale nome era conosciuto anche fuori dei luoghi di produzione. Il sangioveto invece era un vitigno pressochè sconosciuto al di fuori della Toscana in quanto il suo prodotto entrava negli uvaggi del Chianti, Pomino e Carmignano e quando è stato vinificato in purezza è stato chiamato Brunello. Il Sangiovese romagnolo si è affermato non solo dal punto di vista linguistico ma anche dal punto di vista materiale nella ricostituzione dei vigneti. Un vitigno rustico e produttivo che è stato utilizzato  tra il 1960 e il 1980 anche  nei reimpianti del Chianti colpito nel dopoguerra dall’abbandono della terra da parte dei mezzadri».

 

Ringraziamo Beppe Sangiorgi per il tempo che ci ha gentilmente dedicato

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