Un giorno, all'improvviso, in casa si udì un secco rumore e poi venne meno la luce.
Dopo una breve indagine da parte dell'elettricista, la sua sentenza fu: “E' stato il microonde”. Infatti, disinserendo la sua spina dalla presa, l'impianto elettrico funzionava perfettamente.
Era la fine. Per il microonde, intendo.
Aveva avuto una vita travagliata e in casa nostra non era mai riuscito ad attenere la fiducia che forse meritava. Era il terzo che avevo comprato, ma non aveva goduto miglior sorte dei suoi predecessori.
Sempre visto come una sorta di centrale di Fukushima, ogni volta che lo accendevo c'era chi si metteva la tuta d'amianto.
“Queste onde saranno anche “micro”, ma chissà cosa c'è dentro!”
Mio marito non si fidava di lui. Lo considerava un marchingegno ad alto tasso di pericolosità e, come tutte le nuove tecnologie, veniva guardato con sospetto dal mio consorte.

La postazione originaria dell'elettrodomestico in questione era stata il piano della cucina, come presuppongo avvenga in tutte le normali cucine del mondo moderno.
Ma, poiché le onde avrebbero potuto fuoriuscire e colpire i figli, quando lo mettevamo in azione, il congiunto gli si parava davanti a mò di scudo umano, per salvare i ragazzi dalle “radiazioni.”
Insomma, bisognava usarlo di nascosto, oppure utilizzare delle strategie di sopravvivenza. Una era questa: al momento dell' accensione per scaldare il latte la mattina, mio marito ci faceva uscire tutti dalla cucina e chiudeva la porta aspettando il fatidico “driiin”che ci annunciava la fine del processo di riscaldamento. Poi, come ci aveva consigliato il rivenditore, bisognava contare fino a 20 secondi perchè le onde smettessero di girovagare all'impazzata colpendo chissà dove e, infine, con molta cautela, si poteva aprire lo sportello.
Ma chissà se quel latte che avevamo messo a riscaldare era lo stesso o si era irrimediabilmente trasformato in qualcosa di terribilmente infetto?
Io ero così estenuata da tutti questi accorgimenti che me ne fregavo e lo bevevo lo stesso.
Dopo alcuni mesi la strategia fu attenuata da una modifica: girammo il forno di traverso così le onde non ci colpivano quando il microonde era acceso.
Per un po' andò meglio, poi l'atavico terrore verso le nuove tecnologie, nonchè le informazioni dell'amico e chimico Giuliano che al lavoro ne aveva un esemplare costosissimo che veniva utilizzato con mille precauzioni, indussero il mio gentil consorte a prendere una decisione inderogabile: o lui o l'altro.
Visto che quell'aggeggio veniva poco usato in casa nostra e visto che non c'erano studi scientifici che ne dimostrassero la sua innocenza (o innocuità), il preposto venne spostato in malo modo nello studio, fra la scrivania e i libri.
Furono mesi difficili: c'era sempre una sorta di processione dalla suddetta stanza alla cucina.
Chi girava con una tazzina, chi con una scodella e chi con una ciotola, insomma era un grande andirivieni di tegami e scodelle che sciamavano gocciolando per la casa.
La tecnologia dovrebbe migliorarci la vita e invece...
Allora presi in mano la situazione. Chiamai Bego che mi fece un mirabile progetto e spostammo l'alieno dentro l'armadio a muro del cucinotto.
Lì nessuno l'avrebbe visto e bastava tenere le ante aperte per dargli aria quando funzionava.
Fu una magnifica soluzione. Sembrava che gli avessimo trovato un posto definitivo e stabile, ma la vita è imprevedibile e piena di sorprese.
Quel giorno in cui si sentì il botto e mancò la luce, il povero microonde secondo me aveva deciso di farla finita una volta per tutte.
I cambiamenti lo avevano destabilizzato e la mancanza di fiducia nei suoi confronti lo aveva portato ad una crisi d'identità così profonda e totale da indurlo ad un atto estremo: era meglio autosopprimersi piuttosto che vivere al buio di un armadio, bandito come un fuori legge.
Forse fu una liberazione anche per noi.
Lo spostammo in garage in attesa di portarlo all'oasi ecologica e pensai con sollievo che in quello scaffale, al suo posto, avrebbero trovato spazio le padelle grandi che non avevano mai avuto una degna collocazione.
Ora riscaldiamo i cibi come ai “bei” vecchi tempi. C'è qualche tegame in più da lavare (e da “sgurare”), ma almeno non dobbiamo temere per la nostra incolumità.
Forse...

Paola Pozzi

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