Il cardinale Soglia aveva acquistato presso il mercato boario un appezzamento di terreno dove giacevano abbozzate le fondazioni di un teatro che, durante il periodo napoleonico, nel 1809, un gruppo di cittadini aveva tentato di costruire in accordo con la municipalità. Il primo ottobre del 1823 viene aperta al culto la chiesa e nel 1827 viene eretta una scuola di morale. La sensibilità di Giovanni Soglia per l’educazione della gioventu’ fu sempre molto acuta. Per provvedere anche all’educazione femminile nell’agosto del 1845 il cardinale fonderà un istituto che affiderà alle suore Dorotee dotandolo del fondo Olmatelli, di sua proprietà.

Ma com’era la popolazione di Casola a quel tempo?
Va detto subito che i fogli riportano soltanto la situazione della sola parrocchia di Casola. Il paese contava circa ottocento anime mentre le parrocchie piu’di tremila. La gente stava in campagna e le case oggi abbandonate erano allora tutte abitate da famiglie numerose. Il nome piu’diffuso fra le donne era Maria ( 70) seguito da Domenica (33) e Antonia (11). Fra gli uomini era Giovanni (35) seguito da Francesco e da Pietro. Nel paese il numero medio dei componenti era di 4,7 persone per nucleo con un’età media di neanche trent’anni.
I single erano in tutto dieci. Già questi pochi dati ci fanno capire l’abisso con la situazione demografica attuale. I ragionamenti ci porterebbero molto lontano. Ci limitiamo a fotografare la comunità paesana alla fine del 1825: quello che appare un abisso sociologico , in termini numerici, è una differenza di soli 185 anni.
Il mestiere piu’diffuso era il servente. Di collaboratori domestici ,come oggi li chiameremmo, ce n’erano una trentina e altrettante erano le famiglie dei possidenti. Gli scarpari erano venti, otto i segantini, sei i canepini e anche i muratori, nove erano i vetturali e tredici i braccianti. C’erano poi quattro fabbri e cinque falegnami. Un’attività soltanto femminile fra cui si contavano molte in stato di povertà, era la filatrice.
Nel ruolo per la tassa focatico lo stato di indigenza è classificato in due categorie: i poveri e i miserabili. Si tratta di una finezza relativa soltanto all’aspetto fiscale perché in realtà erano comunque persone che, per sopravvivere, dovevano fare ricorso alla carità. L’istituzione che si prendeva cura di queste indigenze era la congregazione di Carità, come allora si chiama la nostra opera pia. Per statuto si occupava soltanto degli abitanti del paese. Erano esclusi tutti quelli delle altre parrocchie.
Nel mese di febbraio la Congregazione esaminava le domande di sussidio dotale delle zitelle del paese cioè delle giovani donne che, prive di mezzi, attestavano lo stato di miseria e di osservanza dei precetti della fede con una dichiarazione dell’arciprete nonché si impegnavano a sposarsi entro l’anno. Anna Farina, Santina Ciacci, Luigia Marabini, Maria Benedetti sono i nomi che ricorrono in quegli anni. La Congregazione si occupava soprattutto di raccogliere gli esposti abbandonati sulle ruote che erano ben cinque: Mercatale, Cestina, Casola, Zattaglia e Baffadi ( le ultime due rimarranno attive fino alla fine dell’ottocento). Erano poi trasferiti all’ospedale di Imola contro cui pendevano sempre discordie e, soprattutto, debiti. Per il mantenimento di ogni bambino l’ospedale di Imola esigeva una tariffa ma siccome erano sempre parecchi la Congregazione faticava a rimborsare. Nel 1825 pendeva una richiesta di Imola di ben 390 scudi, cifra considerevole, considerando che lo stipendio dell’infermiere, una delle maggiori voci di uscita del bilancio ordinario , era di dodici scudi annui.
L’ospedale si trovava accanto alla chiesa di Santa Lucia. Già allora si pensava di trasferirlo perché ormai inadatto alle esigenze della popolazione, ma ,soprattutto, perché manchevole di un pozzo per l’acqua potabile che occorreva acquistare giornalmente. In quegli anni l’idea era di edificare una nuova costruzione nel podere Ospitaletto alle porte del paese. Soltanto dieci anni dopo traslocherà nell’ex convento dei domenicani accanto alla chiesa parrocchiale nei locali ora ristrutturati a civile abitazione.
Le richieste alla congregazione erano davvero tante e disparate, specchio dell’assenza totale degli strumenti di sicurezza sociale che oggi conosciamo. Nel 1824 “ Domenico Montefiori aveva esposto che sua moglie Maria Colombari trovatasi ammalata da molti giorni a questa parte. La malattia si era in oggi convertita in un tifo petecchiato come ha dichiarato questo medico Sig. Giovanni Montanari: che consistendo tutta la di Lui entrata nelle proprie braccia e dovendo assistere la propria moglie venivano a mancargli i mezzi di sussistenza e perciò si raccomandava perché la di Lui moglie sia ricoverata in questo Pio Ospedale e che gli sia passata una sovvenzione giornaliera tanto per la sussistenza sua che per quella della moglie”. Il priore negò l’ingresso in ospedale perché era evidente la natura contagiosa. Il tifo petecchiale è infatti una malattia contagiosa che ha come protagonisti i pidocchi, vettori del batterio Rickettsia prowazekii, e che, nella sporcizia di ambienti e abiti trovavano condizioni favorevoli allo sviluppo delle loro colonie.
Qualche anno piu’tardi i padri Cappuccini “ chiedono che gli siano pagati i medicinali che possono decorrere per la loro comunità come si pratica negli altri luoghi”. La laconica risposta della congregazione:” dietro domanda si darà il sussidio che le forze permetteranno”. Le esigue entrate infatti non venivano dalle affittanze di qualche stanza in paese e dai poderi Castagno e Ospitaletto. Nel nostro registro è riportata la composizione della famiglia colonica che conduceva il podere. L’Ospitaletto, con una superficie di appena quattro ettari scarsi, dava da campare a sei persone: Filippo Martelli, capofamiglia di anni 43, Angela, la moglie di anni 41, Antonia, Clementina e Luigi, figli rispettivamente di 15,14 e 9 anni piu’ un garzone , Selva Domenico, di anni 18.

Roberto Rinaldi Ceroni

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