Avevo forse 14 anni e padre Francesco, rientrato a Casola dall’Africa per un breve periodo di riposo, veniva a recitare il rosario tutte le sere al pilastrino delle case UNRRA.
“Non lasciate passare un solo giorno senza recitare almeno tre Ave Maria alla Madonna perché vi tenga lontano dai pericoli e soprattutto dal peccato” disse.
Magari, a causa della mia insipienza, non sempre hanno fatto effetto, ma da quel giorno non ho mai tralasciato di recitarle le tre Ave Maria di padre Francesco, anche in momenti critici. Ricordo un’occasione molto particolare, durante un collasso seguito ad una operazione alle tonsille, in cui ebbi il mio da fare per non mancare a questo impegno giornaliero.
Padre Francesco è andato in Paradiso il 22 marzo, è stato un grande nella sua semplicità, ha condotto una vita avventurosa, intensa, tutta tesa ad un unico scopo: guadagnare anime al Signore. La sua fede permeava ogni suo atto, ogni suo gesto, ogni sua preoccupazione.
Anche quando rientrava a Casola, diciamo pure alla sua amata Casola, non dimenticava mai di essere un missionario. Mi raccontò lui stesso un piccolo episodio che chiarisce bene questo suo modo di essere. Una domenica mattina vide un gruppo di ciclisti fermarsi in un bar per un breve spuntino. Entrato anche lui nel locale, cominciò a scambiare con questi quattro chiacchiere poi, ritenendo di aver raggiunta la necessaria confidenza, calò la domanda fatidica “ Bene, bene, bello il vostro sport, però non è che per la bicicletta, oggi, dimenticherete di andare a Messa? “
Ve le immaginate le facce di quei ciclisti? Chi conosce l’ambiente sa cosa voglio dire. Eppure, passati i primi momenti di perplessità, questi finirono col sorridere con simpatia a questo prete intraprendente e chissà che a qualcuno il richiamo non sia anche servito.
Padre Francesco, già avviato al sacerdozio, fu conquistato alla vocazione missionaria dai racconti di un padre comboniano a caccia di proseliti presso i seminari delle varie diocesi.
Ordinato sacerdote, fu inviato in Libano per studiare, sul campo, la lingua araba (di lingue poi ha dovuto impararne altre due o tre) e quando i superiori lo ritennero pronto, lo inviarono prima in Egitto, poi in Sudan dove rimase per vari anni, finché la repressione religiosa iniziata dalla classe dirigente di quel paese non ne provocò l’espulsione.
Rientrato in Italia, vi rimase per qualche tempo, mordendo il freno, finché i superiori non decisero di destinarlo alle missioni del Brasile dove si fermò per circa sei anni (questa sua missione brasiliana non me la ricordavo ed è stato lui stesso a rammentarmela due settimane fa in occasione di una visita fattagli a Verona assieme a mia moglie Rita e alle amiche Sandra, Dana e Giovanna).
Tornato in Italia, partì infine di nuovo per l’Africa, il suo grande amore, questa volta destinato allo Zaire (Congo) dove è rimasto fino ad un paio di anni fa, quando dovette lasciare definitivamente, per gravi motivi di salute, la terra di missione.
Ospitato a Verona nella casa di riposo dei missionari comboniani vi è rimasto fino a mercoledì 22 marzo, quando, come già detto, ci ha lasciati per volare in paradiso.
Noi ce lo ricordiamo, padre Francesco, per la vivacità dei suoi racconti e lo zelo con cui ci esortava alla fede e ci sensibilizzava agli ideali missionari durante i suoi rari soggiorni casolani, quando i suoi superiori lo obbligavano a ritornare in Italia per curarsi di qualche malattia tropicale o per un breve e meritatissimo periodo di riposo.
Ce lo ricordiamo anche per i dettagliati resoconti epistolari che inviava per tenere informata la nostra comunità circa le sue esperienze, i risultati raggiunti e, perché no, per farci presente, con discrezione, le esigenze più impellenti dei suoi figli e fratelli africani.
Vivere in terra di missione, in territori ancora in parte selvaggi, tormentati da guerre, rivoluzioni, povertà, precarietà e flagellati da malattie endemiche e contagiose, significa necessariamente sperimentare situazioni di grave disagio ed affrontare pericoli di vario genere: tutto quello che un po’ eufemisticamente definiamo una vita avventurosa.
A padre Francesco hanno ripetutamente sottratto con violenza diversi mezzi di trasporto fino a che non gli rimase solo la bicicletta, ha dovuto nascondersi nella boscaglia in alcune occasioni per sfuggire alle rappresaglie di gruppi armati, ha dovuto affrontare, a volte con diplomazia, altre a muso duro, controparti ostili e pericolose, sempre però senza mai venire meno al principio di carità.
Mai l’abbiamo sentito proferire parole di risentimento o di condanna. Nei suoi racconti c’era sempre il sorriso, non di rado cenni di arguta ironia e di humour che gli servivano per smorzare la drammaticità di certe situazioni.
Come ho già accennato, circa due settimane fa, in compagnia di alcune amiche, andai a fargli visita a Verona. C’erano anche alcuni dei suoi nipoti. Lo trovammo in condizioni discrete, avendo superato una crisi acuta intervenuta il giorno prima.
La casa di riposo, curata e dotata di ambienti confortevoli, mi provocò una forte commozione, con tutti quegli anziani missionari, colpiti dagli acciacchi e dalle infermità “guadagnate” in lunghi anni di militanza sugli avamposti della fede, che ti guardavano con curiosità, magari desiderosi di scambiare qualche parola e con negli occhi un sorriso sereno. Uomini avventurosi e coraggiosi, ciascuno, si indovinava, con un lungo bagaglio di esperienze e di ricordi straordinari, ora erano lì in attesa. Ma non traspariva in loro nessuna tristezza, magari soltanto un po’ di melanconica ma serena nostalgia per quelle lontane terre a cui avevano dedicato tutta la vita.
Ecco, ho pensato fra me, in questa casa si respira un forte profumo di santità.
Padre Francesco si trovava con la sua carrozzina in una luminosa veranda, tutta vetri, da cui si poteva dominare dall’alto buona parte di Verona il cui cielo, dopo un breve temporale, si era rasserenato lasciando trasparire sprazzi di azzurro e raggi di sole. Era già in compagnia di alcuni nipoti: l’atteggiamento era contenuto a causa della debolezza provocata dalla malattia, ma il volto raggiante e gli occhi vivaci esprimevano gioia. Si vedeva che era molto contento per le visite ricevute e, dopo i saluti, un piccolo fiume di lucidi ricordi, con tanto di date, nomi e circostanze dettagliate. Talvolta la voce, lenta ma sicura, si incrinava: “Purtroppo non sono riuscito a fare tutto quello che era necessario, avrei forse potuto fare di più”.
Ho sorriso, beata santità! Che cosa potrebbe fare un uomo di più?
Poi ancora: “Eh! Siamo qui in attesa che il Signore ci chiami, ma finché non siamo di Là, bisogna vigilare perché il diavolo è furbo e sta sempre in agguato”.
Ancora un sorriso, perché in quel momento ero certo che il diavolo con questo nostro straordinario concittadino la partita l’avesse già considerata persa da un pezzo.
Mentre parlava, padre Francesco guardava oltre le vetrate della veranda, dove i tetti bagnati di Verona rilucevano ai raggi del sole ricomparso dopo la pioggia. Sono però sicuro che i suoi occhi in quel momento vedessero molto più in là, sono sicuro di aver scorto nei suoi occhi il riflesso di grandi distese di foreste e di savane e gli sterminati orizzonti dei cieli africani.
Mi è venuto in mente che forse anche in angolo del Paradiso c’è un posto molto simile a quella veranda, una specie di balcone affacciato sul nostro mondo dove i Beati, ogni tanto, si recano per dare una occhiata di sotto a quella Terra dove hanno vissuto intensamente e dove si sono guadagnati il Cielo. Magari un’occhiatina soltanto, un’occhiatina colma però di tenerezza e di amore e forse accompagnata da una puntina, piccola, piccola, Dio non me ne voglia, ma proprio piccola, di nostalgia.
Quando ci siamo accorti che Padre Francesco cominciava ad avvertire la stanchezza abbiamo chiesto la sua benedizione e lo abbiamo accompagnato nella sua stanza e lì, rimasto solo con lui, ho avuto il privilegio di rendergli un piccolissimo servizio, aiutandolo a svestirsi e a coricarsi sul letto.
“Questa sera – mi ha sorriso sereno e soddisfatto – un casolano mi ha messo a letto!”.
Questa sera, ho pensato io, un casolano ha messo a letto un santo.

Alessandro Righini
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