Pubblichiamo con piacere (e con un ritardo di cui ci scusiamo) la Relazione tenuta da Beppe Sangiorgi il 17 marzo 2011 in occasione della seduta straordinaria del Consiglio Comunale di Casola Valsenio per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Il testo viene pubblicato mantenendo scansioni, sintesi, e struttura così come erano state impostate per l’esposizione orale


La distruzione dell’archivio storico comunale da parte dei tedeschi in ritirata sul finire del 1944 costringe a lavorare notizie frammentarie che sono da una parte un limite oggettivo e dall’altra un vantaggio in quanto costringe ad attingere da fonti diverse - documenti, giornali, manifesti e così via – che permettono di delineare un quadro storico ampio e variegato.
A metà Ottocento Casola era sotto lo Stato Pontificio ed era sede di Governatorato con giurisdizione su Castel del Rio, Fontanelice e Borgo Tossignano.
Il 4 giugno 1859 l’esercito franco piemontese sconfigge a Magenta l’esercito austro ungarico che il 12 giugno è costretto a ritirarsi dalla Romagna dove costituiva il braccio armato dello Stato della Chiesa i cui rappresentanti abbandonarono ugualmente queste terre. I gendarmi pontifici abbandonarono Casola nel pomeriggio del 13 giugno 1859.
In tale frangente la Romagna fu occupata dall’esercito del Regno di Sardegna e la magistratura casolana elesse una giunta provvisoria costituita da Raffaele Zauli, Battista Cenni e Pio Ungania che rivolgono un appello alla popolazione: “...contando sulla sperimentata prudenza di voi che desiderate di unirvi all’invitta monarchia piemontese volge voi le prime parole esortandovi caldamente a mantenere l’ordine e la tranquillità”. Viene rinnovata anche la rappresentanza comunale con Pietro Morozzi, Cristoforo Ungania, Federico Alpi e Giovanni Linguerri Ceroni mentre Eugenio Ravaglia assume l’incarico di governatore ma Castel del Rio, Fontanelice e Borgo approfittano del momento per chiedere di passare sotto la giurisdizione di Imola.L’11 e 12 marzo 1860 si tennero le consultazioni per l’annessione, cioè il plebiscito. Votavano i maschi adulti che sapevano leggere e scrivere e per censo.
A Casola i votanti furono 1.386 (numero molto, comprendente forse anche i tre comuni della valle del Santerno, comunque così riportato dal Monitore di Bologna del 16 marzo): 1367 furono favorevoli all’annessione al Regno di Sardegna, 6 ad un regno separato e 13 furono i voti nulli.Così anche Casola entrò a far parte del Regno di Sardegna senza gravi contraccolpi, a parte le ritorsioni dell’arciprete di Casola, don Paolo Ungania, il quale cacciò di chiesa e negò la confessione a coloro che avevano sottoscritto l’annessione al Regno di Sardegna che il 17 marzo 1861 divenne il Regno d’Italia. Gli mancava però ancora il Veneto, conquistato nel 1866 e Roma e parte del Lazio, conquistati nel 1870.
Gli avvenimenti legati dal passaggio dallo Stato Pontificio al regno d’Italia vennero vissuto in modo diverso in paese e in campagna: indipendenza ed annessione sono eventi vissuti con consapevolezza e partecipazione dagli abitanti del paese mentre la campagna li subì in modo quasi del tutto inconsapevole, restandone in pratica estranea ma pagandone però le conseguenze. Come ad esempio la leva obbligatoria che non esisteva sotto il Papa. Si sorteggiava fra tutti gli idonei fino a raggiungere il numero di arruolati previsto ma chi poteva pagare (nel 1871 erano 3.200 lire, una bella cifra) evitava una lunga ferma ed un altro era sorteggiato al suo posto.
Mio nonno Alfonso Sangiorgi di Brisighella, del quale conservo il libretto militare con il numero di estrazione subì la ferma dal 1866 al 1871 e, come riporta il libretto, combattè contro gli austriaci nella guerra d’indipendenza del 1866.

Di fronte ad una così lunga ferma, numerosi erano coloro che disertavano e si davano alla macchia alimentando il brigantaggio. Il brigantaggio è uno dei fenomeni che caratterizza il territorio di Casola Valsenio dopo l’annessione. Il 24 agosto 1861 nei pressi di Monte Battaglia viene catturato il brigante Baraccuchino con un sacco pieno di barbe, parrucche e munizioni. Il giorno dopo la rocca di Monte Battaglia viene incendiata dalla Guardia Nazionale di Casola per snidarvi un forte gruppo di banditi che vi si era asserragliato.
La recrudescenza postplebiscito del brigantaggio, che comunque era sempre esistito, non assume qui il carattere politico ed antipiemontese del Meridione e del centro Italia ma è conseguente alla leva obbligatoria e ancor più alla “perdita del lavoro” da parte dei contrabbandieri.
Esisteva un fiorente commercio illegale tra Romagna e Toscana, tra Stato Pontificio e Granducato, con dogane a S. Apollinare e Macchia dei Cani. Si esportavano illegalmente soprattutto sale e pesce e si importavano tabacchi, cotone e zucchero, soprattutto ad opera dei contrabbandieri di Castel Bolognese che occupavano una contrada e che si portavano nelle vicinanze del confine seguendo in maggioranza il crinale tra il Senio e il Santerno. Qui potevano contare su un buon punto di appoggio presso la chiesa di San Rufillo, soprattutto dal 1824 al 1842, quando fu parroco don Andrea Montanari, giocatore d’azzardo e contrabbandiere , che nel 1842 uccise un contadino a causa di una ragazza poi scappò per entrare, sembra, nella banda del Passatore.
Quando i contrabbandieri castellani giungevano nelle vicinanze del confine, subentravano casolani e palazzuolesi a fare gli spalloni, cioè a trasportare a spalla la merce seguendo sentieri impervi che ben conoscevano.
Mentre le guardie doganali pontificie venivano inglobate nelle forze del Regno di Sardegna già nell’ottobre del 1859, i contrabbandieri si trovarono senza lavoro come afferma il sindaco di Casola Valsenio Gandolfo Tosi rivolto ai consiglieri nella seduta del 15 ottobre 1861: “Quante famiglie vivessero del frutto del contrabbando non vi è di voi chi lo ignori e tutti di presente sentiamo il lamento dei perduti guadagni perdita che per taluni ha costituito una vera povertà”.
Il sindaco Tosi era un fervente propugnatore dell’Unita Nazionale, non compromesso col governo papalino, tanto che nella stessa deliberazione afferma: “Quando il grido di libertà risuonava per le oppresse contrade della Sicilia e quel popolo schiavo faceva sentire a noi popoli liberi il bisogno di soccorso, esitò forse questo nostro consesso ad approvare l’offerta di 500 lire sebbene sapesse che non eravi fondi in economia, quando l’Uomo della Provvidenza, il più grande e il più magnanimo dei re, Vittorio Emanuele II, visitava la nostra provincia, potevamo noi soli di tutti i municipi rimanerci dal tributargli l’omaggio della nostra sudditanza e gratitudine? Noi i cui predecessori avevano contratto un debito di centinaia e centinaia di scudi per innalzare un arco allorché percorreva le nostre contrade il Papa Re, che ci aveva straziato col cavalletto e le fucilazioni dell’orde tedesche?”Il sindaco Tosi si riferiva all’ultima visita di Pio Nono in Romagna, nel maggio del 1857, occasione in cui i casolani avevano innalzato all’incrocio della Via Emilia con la strada per Riolo e Casola Valsenio un arco trionfale di stile egizio, con sopra una ringhiera dalla quale la Banda di Casola salutò l’arrivo della carrozza papale. L’arco recava la scritta: “A Pio IX i Casolani”. Il Pontefice fece arrestare la carrozza, scese a salutare la Magistratura casolana, benedisse e ringraziò anche la folla per i sacrifici affrontati nei venti chilometri percorsi a piedi, alzò poi la mano impartendo la benedizione verso la Valle, mentre la banda intonava salmi ed inni.
Questo episodio fa capire che aria tirava a Casola sotto il Papa e spiega come il contributo dei casolani alle guerre di indipendenza e alle campagne garibaldini sia stato inferiore a tanti paesi della Romagna come Castel Bolognese dove numerose sono ancora le lapidi con i nomi dei garibaldini caduti in battaglia, ma quello è un paese posto a cavallo della Via Emilia lungo la quale è passata la storia e quindi è stato facile per i castellani seguire i condottieri che attraversavano il paese, primo fra tutti Garibaldi.
A Casola risulta solo l’inaugurazione nel 1876, con un discorso di Alfredo Oriani, di una lapide, poi andata perduta, in onore di Domenico Sabbatani, caduto a Solferino nel 1849.
Comunque anche qui c’erano correnti e posizioni anticlericali e antipapaline, seppur in modo molto sotterraneo, tra la piccola borghesia paesana. Qui non ci sono stati i Laderchi o i Caldesi, nobili faentini, liberali e rivoluzionari. Addirittura quando nel 1865 ( sindaco Giovanni Linguerri Ceroni) la Sottoprefettura chiese se il municipio di Casola era disposto a fornire le medaglie commemorative a coloro che avevano combattuto per l’indipendenza si ebbe un netto rifiuto perchè non c’erano i soldi. Il sentimento libertario era molto più sentito e dichiarato tra gli operai, bottegai e artigiani del paese. Ad esempio nel 1832 furono arrestati tre calzolai, due vetturali, uno scarparo, un muratore, un locandiere, un sarto e un contadino per canti sediziosi eseguiti in luogo pubblico spiegando segni ed emblemi diretti ad eccitare la insubordinazione.
Dopo il 1861 esistono dunque a Casola, soprattutto in paese, due blocchi sociali e politici. Da una parte i borghesi, monarchici, che continuano ad occupare i posti di governo locale e che concepiscono l’unità d’Italia come l’unione di tutti in territori sotto il re, unione che si completa nel 1870 con la presa di Roma, dopo che nel 1866 era stato conquistato il Veneto.
Dall’altra parte il blocco popolare composto da repubblicani, anarchici e socialisti che invece intendono l’unità d’Italia anche come espressione di solidarietà e fratellanza, libertà ed uguaglianza, rifacendosi alla costituzione della Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi e che quindi dovranno aspettare molto più per vederla compiutamente realizzata.
Il diverso orientamento provoca non pochi attriti. Come ad esempio in occasione dell’inaugurazione il 31 agosto 1890 della lapide a Mazzini e Garibaldi voluta dalle Società operaie e di mutuo soccorso, con testo di Alfredo Oriani: “GIUSEPPE MAZZINI E GIUSEPPE GARIBALDI/ fusa l’opera creatrice/ conquistarono alla patria/ libera unità di nazione//ora e sempre/ raccolto nelle virtù dei loro nomi/ il popolo casolano/ pose”.
La lapide fu posta sulla facciata del municipio in piazza dei Ceronesi (oggi piazza Sasdelli) ma, scrive il corrispondente del Lamone, giornale repubblicano faentino: “Non voglio raccontarvi le difficoltà poste dai reazionari all’innalzamento della lapide” e prosegue “La banda musicale di Riolo era stata chiamata dal paese, poiché il municipio con miserabile pretesto e sempre per contrastare alla causa della democrazia aveva sospeso la nostra imponendole di consegnare le uniformi. Tuttavia i nostri giovani bandisti sentirono il proprio dovere e suonarono in abito borghese”. Continua la corrispondenza: “Le vie formicolavano di gente: i reduci passeggiavano superbi delle medaglie conquistate sui campi della patria indipendenza, in tutti i crocchi si sentiva ripetere il nome di Mazzini e Garibaldi. Erano racconti di battaglie, di cospirazioni, aneddoti di volontari paesani, strappi di drammi e di poesia che destavano rapide e generose commozioni”.
Quella lapide rappresentò un punto di riferimento negli anni a venire. Nel settembre 1904, ad esempio, vi fu appesa una bandiera rossa abbrunata con la scritta “W i martiri del lavoro” per ricordare tre minatori sardi uccisi a Buggerru dalle forze dell’ordine chiamate dai proprietari delle miniere.
Per il ceto popolare e lavoratore casolano, sia di paese che di campagna, l’unità d’Italia si compirà tra il 1943 e il 1948 con il mondo operaio e contadino che diventa finalmente protagonista attivo e consapevole della sua storia attraverso la guerra di Liberazione, alla quale segue il suffragio universale esteso alle donne, lo stato che si fa repubblica così che i sudditi diventano cittadini, tutti uguali grazie alla Costituzione.

Beppe Sangiorgi
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